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Stando a quanto sostiene un vicebidello dell’università di Maximegalon che bighellona spesso fuori dalle aule, l’universo ha più di sedici miliardi di anni. Questa pretesa verità è dileggiata da un gruppetto di poeti beat betelgeusiani che sostengono di essere in possesso di taccuini moleskine ben più antichi (tichi-tichi-tah). Diciassette miliardi, dicono, ed è anche poco, a quanto si deduce dalla copia in loro possesso dei cartigli del Wham Barn Bum Big Bang. Un ragazzino prodigio di razza umana una volta fissò la datazione a quattordici miliardi, basandosi su un complesso calcolo che teneva conto della densità della roccia lunare e della distanza fra due ragazze in età puberale su un orizzonte degli eventi. Uno degli dei minori di Asgard grugnì di aver letto da qualche parte qualcosa su un evento cosmico colossaluccio accaduto diciotto miliardi di anni fa, ma nessuno dà più grande peso alle asserzioni che vengono dai cieli dopo la caduta degli dei, o Thorgate, nome con cui il fattaccio balzò ai disonori della cronaca.

Quanti che fossero in realtà i miliardi, pur sempre di miliardi si trattava, e il vecchio sulla spiaggia mostrava tutti i segni di chi ha contato sulla punta delle dita almeno uno di questi milioni di milioni. Aveva la pelle bianco avorio incartapecorita e, visto di profilo, somigliava molto a una S maiuscola e tremolante.

L’uomo ricordava di aver avuto un gatto, una volta, sempre che i ricordi si potessero considerare qualcosa di più che semplici configurazioni di neuroni disposte su trilioni di sinapsi. I ricordi non si potevano toccare con mano, non si avvertivano fisicamente come la spuma delle acque sulle sue dita nodose. Ma d’altro canto cos’erano le stesse sensazioni fisiche, se non ulteriori impulsi elettrici nel cervello? Perché fare affidamento su queste ultime, allora? Esisteva qualcosa di attendibile nell’universo cui aggrapparsi e afferrarsi nel bel mezzo di una tempesta farfallina, a parte un paravento hawaliusiano?

“Dannate farfalle” pensò l’uomo. Non appena avessero saputo di quella storia del battere le ali a un continente di distanza, milioni di lepidotteri si sarebbero organizzati per mettere in atto un piano malefico.

“Ecco, quella era una cosa che non poteva esistere nella realtà” si disse. “Tempeste farfalline?”

Ma poi altri neuroni accesero ulteriori sinapsi sussurrando qualcosa sulle teorie dell’improbabilità. Se una cosa era destinata a non accadere mai, allora quella cosa si sarebbe recisamente rifiutata di non accadere alla prima occasione possibile.

Tempeste farfalline. Era solo questione di tempo.

Il vecchio si impose di distogliere l’attenzione da quel fenomeno prima che gli si presentasse alla mente il balbettante vagito di qualche altra catastrofe.

Esisteva mai qualcosa su cui fare affidamento? Qualcosa da cui trarre conforto?

I soli al tramonto accendevano delle mezzelune sulle increspature dell’acqua, brunivano le nubi, striavano d’argento le foglie delle palme e facevano scintillare la teiera di porcellana sul tavolo della veranda.

“Oh, sì” pensò l’anziano. Il tè. Al centro di un universo incerto e potenzialmente illusorio, ci sarebbe stato sempre il tè.

Il vecchio tracciò due numeri naturali sulla sabbia con un bastone da passeggio ricavato dalla gamba di un robot dismesso, e vide le onde spazzarli via.

Un attimo prima c’era il quarantadue e l’attimo dopo non c’era più. Forse quelle cifre non c’erano mai state e forse non avevano neppure importanza.

Per qualche motivo la cosa gli fece sfuggire una risata, mentre si dirigeva verso la veranda, arrancando chino per il pendio. Si sistemò con un gran crocchiare di ossa e legno su una poltroncina di vimini del tutto in armonia con il panorama circostante, e chiamò il suo androide perché gli portasse dei biscotti.

L’androide gli servì della miscela Rich Tea.

Ottima scelta.

Qualche istante dopo, l’improvvisa apparizione di un uccello metallico sospeso a mezz’aria ruppe per un momento la concentrazione dalla zuppetta, così il vecchio perdette un’abbondante mezzaluna di biscotto nel tè.

«Oh, per l’amor del cielo» borbottò. «Hai idea di quanto abbia lavorato per sviluppare questa tecnica? Zuppetta e sandwich... Che altro rimane a una persona?»

Il volatile restò impassibile.

«Un volatile impassibile» fece l’uomo, assaporando il suono delle sue parole. Chiuse l’occhio malato che aveva smesso di funzionargli come si deve da quando, da ragazzino snaturato, era caduto da un albero, ed esaminò la creatura.

L’uccello ondeggiava a mezz’aria, le piume metalliche che brillavano di un rosso cremisi sotto i raggi del sole, le ali che battevano agitando minuscoli turbini.

«Batteria» disse il volatile, con una voce che gli fece tornare alla mente quella di un attore cui aveva visto recitare l’Otello al Globe Theatre di Londra. È incredibile quello che una singola parola riesce a evocare.

«Hai detto “batteria”?» chiese l’uomo, tanto per esserne certo. Poteva aver detto “latteria”, o persino “sciatteria”. Non aveva più l’udito di una volta, specie per le iniziali.

«Batteria» ripeté il volatile, e d’un tratto la realtà s’incrinò e cadde a pezzi come uno specchio rotto. La spiaggia sparì, le onde si bloccarono, crepitando e dissolvendosi. L’ultima cosa a svanire fu il Rich Tea.

«Stronzo» borbottò il vecchio mentre le rimanenti briciole del biscotto gli si dissolvevano fra le dita, poi tornò a sedersi su un cuscino nella stanza di cielo che d’un tratto lo circondava. Ben presto sarebbe arrivato qualcuno, di questo era certo. Dalle caverne oscure dei suoi ricordi, i nomi Ford e Prefect emersero come pipistrelli grigi per associarsi al disastro incombente.

Ogni volta che l’universo cascava a pezzi, Ford Prefect non era lontano. Lui, e quel suo stramaledetto libro. Come si chiamava? Oh, sì. Le grida stallatiche del linotipista.

O qualcosa di molto simile.

Il vecchio sapeva perfettamente cos’avrebbe detto Ford Prefect.

“Guarda il lato positivo, vecchio mio. Se non altro non ti trovi sdraiato davanti a un bulldozer, no? Se non altro non siamo stati sputati fuori dal portello di un’astronave vogon. Una stanza di cielo non fa tanto schifo, se ci pensi. Potrebbe andare peggio, molto peggio.”

«Andrà presto molto peggio» disse il vecchio con cupa convinzione. Per sua esperienza, le cose tendevano in genere ad andare di male in peggio, e nei rari casi in cui parevano migliorare, era solo il drammatico preludio a un aggravamento cataclismico.

Oh, quella stanza fatta di cielo pareva piuttosto inoffensiva, ma quali terrori serpeggiavano oltre quei muri fluttuanti? Nulla che non fosse terribile, di questo era certo.

Cacciò il dito su una delle superfici malleabili del muro, che gli fece pensare a un budino di tapioca, e la cosa gli strappò un mezzo sorriso, finché non ricordò che odiava la tapioca da quando un bulletto gli aveva farcito le ciabatte con quella roba ai tempi delle elementari alla Eaton House.

«Blisters Smyth, spregevole merdaccia» mormorò.

Il polpastrello lasciò un momentaneo foro tra le nubi, attraverso il quale il vecchio colse la visione fugace di un’alta finestra a ghigliottina. Ma quello dietro il vetro non era un raggio mortale?

Era proprio come aveva temuto.

“Tutto questo tempo” si disse. “Tutto questo tempo e non è accaduto nulla.”

 

 

Ford Prefect stava vivendo un sogno, dove per “sogno” si intenda la permanenza presso uno degli stabilimenti termali edonistici categoria cinque-supergigante ultralusso con erosione naturale sul pianeta Han Wavel, dove le ore di veglia dei villeggianti venivano occupate con dosi da danno irreversibile di cocktail esotici e relazioni con femmine esotiche di svariate specie.

E, dulcis in fundo, il conto di questo pacchetto autoindulgente e possibilmente suscettibile di accorciare l’esistenza sarebbe stato affidato alle cure della sua carta Cont-o-Spes, dal plafond illimitato grazie a un piccolo armeggiamento informatico creativo durante la sua ultima visita agli uffici della Guida galattica.

Se a un Ford Prefect più giovane fosse stato dato un foglio bianco sul quale redigere in tutta calma un breve paragrafo indicando in dettaglio i suoi desideri più cari per il futuro, l’unica modifica che avrebbe potuto apportare a quanto suelencato sarebbe stata l’avverbio “possibilmente”. Probabilmente.

Gli stabilimenti di Han Wavel erano così lussuosi che, si diceva, un brequindano di sesso maschile avrebbe venduto la madre per una notte nell’ignominiosa vibro-suite del Sandcastle Hotel. Non si tratta di una cosa scioccante come potrebbe apparire, dal momento che i genitori sono una valuta comunemente accettata a Brequinda, e una settuagenaria ben idratata e con una buona dentatura può essere scambiata con un motojet familiare di fascia media.

Probabilmente Ford non avrebbe venduto i genitori per finanziare il suo soggiorno al Sandcastle, ma aveva un cugino bicefalo che in molte occasioni procurava più guai che altro.

Ogni notte, Ford saliva sul meretro-scensore per recarsi al suo superattico, gracchiava alla porta per entrare e poi si fermava un attimo a guardarsi dritto negli occhi iniettati di sangue prima di perdere i sensi con la testa infilata dentro il lavandino.

“Questa è l’ultima volta” giurava notte dopo notte. “Presto o tardi il mio corpo si rivolterà e imploderà su se stesso, ne sono certo...”

Che cos’avrebbe recitato il suo necrologio nella Guida galattica?, si domandò Ford. Sarebbe stato breve, quello era certo. Un paio di parole. Forse le stesse due parole con le quali, tanti anni prima, i subrevisori della guida avevano riassunto il suo saggio sul pianeta Terra. Praticamente innocuo.

La Terra. Non era accaduto qualcosa di particolarmente triste, sulla Terra, di cui avrebbe dovuto ricordarsi? Perché c’erano cose che riusciva a ricordare, e altre che erano nitide come un mattino caliginoso tra le nebbie perenni delle pianure di Nephologia?

Era in genere durante questa fase patetica che il terzo Gotto Esplosivo Pangalattico spremeva l’ultima goccia di coscienza dal cervello ultrasbronzo di Ford, e allora gli scappavano due risatine, starnazzava come un pollo ruspante e capitombolava con una capriola quasi perfetta sul primo ricettacolo che trovava a portata di mano in bagno.

Malgrado ciò, ogni mattina quando sollevava il capo dal lavabo (se era fortunato), Ford si ritrovava miracolosamente rivitalizzato. Niente postumi da sbornia, niente alito pestilenziale, neppure un vaso sanguigno esploso a testimonianza degli eccessi della notte prima.

“Sei un gran frugo, Ford Prefect” si diceva sempre. “Oh, sì che lo sei.”

“C’è qualcosa che mi puzza qui” insisteva il suo subconscio.

Un salmone di dubbio che risaliva la corrente dei suoi pensieri?

O non era forse il ricordo di qualcosa, qualcosa che aveva a che fare con i delfini? Addio e grazie per tutto il... Certo, i delfini non sono pesci, ma vivono nello stesso habitat.

“Rifletti, idiota! Rifletti! Dovresti essere già morto centinaia di volte. Hai ingollato tanti di quei cocktail da mettere in salamoia non solo te stesso, ma svariate versioni alternative di te stesso. Come fai a essere ancora vivo?”

«Vivo e frugo» si diceva allora Ford, strizzandosi a volte pure un occhiolino allo specchio e meravigliandosi di quanto gli si fosse fatto brillante il rosso dei capelli, quanto pronunciati gli zigomi. Cominciava persino a spuntargli un bel mento. Un vero mento scolpito.

«Questo posto mi fa bene» confidava al suo riflesso. «Tutti questi bendaggi di fotosanguisughe e i trattamenti colonoscopici a lemming irradiati mi stanno proprio rinvigorendo l’organismo. Credo di dovere a Ford Prefect un piccolo prolungamento di vacanza.»

E se lo concedeva.

 

 

L’ultimo giorno, Ford addebitò sulla sua carta di credito un massaggio subacqueo. Il massaggiatore era un Calamaro Pom Pom damograniano con undici tentacoli e mille ventose che percosse la sua schiena ripulendogli i pori con una sventagliata di sferzate tamburellanti. I Calamari Pom Pom erano in genere sovraqualificati rispetto alle mansioni affidate loro nell’industria termale, ma venivano dissuasi dal conseguire l’ennesimo dottorato con la promessa di alte retribuzioni, vasche ricche di plancton e l’eventualità di ritrovarsi a massaggiare un talent scout dell’industria musicale e procurarsi, chissà, un contratto discografico.

«Hai mai fatto talent scouting, amico?» chiese il calamaro, in tono non troppo speranzoso.

«No» rispose Ford, le bolle che gli fluivano dal casco di plexiglas e il viso che gli brillava di un bell’arancio al gradevole luccichio della fosforescenza rocciosa. «Però una volta possedevo un paio di scarpe scamosciate blu, come nel brano di Elvis, e la cosa dovrebbe avere il suo peso. Me n’è rimasta una sola... L’altra è più sul color malva, trattandosi di una copia.»

Il calamaro abboccava il plancton di passaggio, mentre parlava, e la cosa rendeva la conversazione un po’ sconnessa.

«Non so se.»

«Se cosa?»

«Non avevo finito.»

«Ma avevi smesso di parlare.»

«C’era uno scintillio. Credevo fosse cibo.»

«Mangi scintillii?»

«No. Non scintillii veri e propri.»

«Meglio così, gli scintillii sono cuccioli di scintillii, e sono velenosi.»

«Lo so. Stavo solo dicendo che.»

«Un altro scintillio?»

«Esatto. Dicevo, sei certo di non essere un talent scout, o un agente?»

«Spiacente.»

«Oh, per l’amor di Zark» imprecò il calamaro, in modo non molto professionale. «Sono due anni che lavoro qui. Ti passeranno sotto le ventose decine e decine di agenti e talent scout, mi avevano promesso. Neanche uno. Neanche una maledetta ombra. Stavo studiando kazoo avanzato, sai.»

Ford non poté resistere davanti a un’affermazione come quella. «Kazoo avanzato? Quanto può mai avanzare lo studio del kazoo?»

Il calamaro si offese. «Parecchio, quando riesci a suonarne mille contemporaneamente. E io ero in un quartetto. Te l’immagini?»

Ci provò. Chiuse gli occhi, si godette lo splurp-pop delle ventose sulla schiena immaginandosi quattromila kazoo che suonavano in perfetta armonia subacquea.

Dopo un po’ il calamaro gli cinse le spalle con una mezza dozzina di tentacoli e lo rigirò delicatamente. Ford aprì un occhio e lesse il distintivo del massaggiatore.

mi chiamo barzoo diceva la targhetta. usami a tuo piacimento.

E sotto, in caratteri più piccoli: sono allergico alla gomma.

«Dunque, Barzoo. Che genere di roba suonavate?»

Il massaggiatore diede una bella spompagliata di tentacoli prima di rispondere, sollevando un turbine di correnti.

«Vecchi brani, soprattutto. Cover. Hai mai sentito parlare di Hotblack Desiato?»

“Questo nome l’ho già sentito” si disse Ford, ma non riusciva a collocare esattamente il ricordo. Ogni giorno che passava le cose si facevano più confuse.

«Hotblack Desiato. Non era morto da un bel pezzo?»

Barzoo drizzò il capo, pensandoci su. Il becco del calamaro rimase spalancato, incurante dei minuscoli flussi di plancton di passaggio.

«Ehi, se non te lo ricordi non fa niente. Pure io ho qualche problema di memoria, in questo posto. Cose da poco, del tipo da quanto tempo mi trovo qui, qual è il mio scopo nella vita, in quale piede mettere le scarpe. Roba del genere.»

Il calamaro non rispose, e i tentacoli ricaddero inerti sul petto di Ford come cordame vecchio.

Ford sperò che Barzoo non fosse improvvisamente morto; e se poi il calamaro fosse davvero passato allo stadio energetico, le ventose avrebbero perso l’aderenza o sarebbe entrato in una sorta di modalità risucchio mortale? Non aveva alcuna voglia di trascorrere il resto della vacanza a farsi rimuovere chirurgicamente dei tentacoli dal petto.

Poi Barzoo sbarrò gli occhi.

«Ehi, amico» disse Ford con un sospiro. «Bentornato. Per un attimo, avevo quasi pen...»

«Batteria» disse il calamaro, il becco che gli ticchettava sulle “t”. «Batteria.»

“Non me n’ero mai accorto” pensò Ford “ma questo calamaro somiglia tanto a un uccello.”

In quel momento, la caverna del massaggio subacqueo si dissolse, e Ford Prefect si ritrovò che giaceva in una stanza fatta di cielo azzurro.

Una figura familiare sedeva all’angolo opposto.

«Ah» disse Ford, ricordando.

 

nota della guida Il Ricordo è in genere un processo che consta di due passaggi, e comporta un dialogo fra la parte conscia e il subconscio del cervello. Il subconscio apre la seduta vomitando un ricordo rilevante, atto questo che rilascia uno sprizzo di endorfine autocelebrative.

“Benfatto, amico” dice la parte cosciente. “Quel ricordo mi serviva giusto adesso, e non mi veniva proprio in mente dove l’avessi cacciato.”

“Dovere, amico” risponde il subconscio, lieto che il suo contributo una volta tanto venga riconosciuto. “Siamo soci, no?”

Poi la coscienza recupera il ricordo dalla vaschetta della posta in arrivo e gli dà una scorsa, inviando allo sfintere un segnale che gli dice di prepararsi al peggio.

“Ma perché diamine mi ci hai fatto ripensare?” lo sgrida. “È tremendo. Terribile. Non volevo ricordarmelo. Perché zark credevi che l’avessi seppellito nel profondo della mente?”

“È l’ultima volta che ti aiuto” brontola il subconscio, e si ritira nelle aree più recondite di sé, dove si celano i pensieri più inconfessabili. “Non ho bisogno di te” dice a se stesso. “Se mi viene voglia mi faccio un’altra personalità tutta mia con tutte queste cose che hai scartato.” Ed ecco piantati i semi della schizofrenia dai piccoli chicchi delle tirannie dei bulletti a scuola, del mancato accudimento, di carenze di autostima e pregiudizi.

Per fortuna, i betelgeusiani non hanno un gran subconscio, quindi non c’era alcun problema.

 

«Ah» ripeté Ford, e subito aggiunse: «merda».

Si mosse circospetto sul pavimento di cielo, e con un sobbalzo si accorse che per un attimo una gamba gli aveva sfarfallato.

“Non sono reale” comprese, e ciò bastò a conficcare uno spillo nel suo umore perennemente allegro, ma si riprese subito, cosa che l’altro occupante della stanza non pareva essere stato ancora in grado di fare.

«Guarda al lato positivo, vecchio mio» esclamò, rivolto al terrestre. «Se non altro non ti trovi sdraiato davanti a un bulldozer, no? Se non altro non siamo stati sputati fuori dal portello di un’astronave vogon... Ricordi? Una stanza di cielo non fa tanto schifo, se ci pensi. Potrebbe andare peggio, molto peggio.»

“E andrà presto molto peggio, se ho capito ciò che sta succedendo” pensò Ford, ma si trattenne dall’esprimere quell’idea a voce alta. Arthur aveva l’aria di chi aveva già avuto fin troppe brutte notizie in un giorno solo.

 

 

La giornalista interplanetaria Trillian Astra passò qualche ansioso minuto nel bagno riservato alla stampa, prima di dirigersi all’auditorium per quella che prometteva di essere l’intervista più importante della sua vita. Nel corso della sua illustre carriera, Trillian aveva vissuto per un anno sotto copertura da prostetnica, come funzionaria vogon nel sistema di Megabrantis. Aveva perso per assideramento il piede sinistro quando i saccheggiatori di miniere di Orione Beta avevano depredato una cava di madranite, e in tempi più recenti era stata aggredita da un ortodontista olistico allorché si era azzardata a mettere in dubbio l’efficacia dei salmi raddrizzadenti.

Il nome di Trillian era noto in tutta la galassia. All’apice della carriera, era temuta da loschi politici, magnati del cinema e celebrità single incinte, da Alpha Centauri a Viltvodle VI, ma quel giorno sentiva sulle sue spalle lo spettro della paura.

La Presidentessa Galattica Random Dent. Sua figlia. In diretta a reti unificate dall’Università di Maximegalon davanti a un pubblico di cinquecento miliardi di spettatori.

Era in ansia. No, molto di più. Era terrorizzata. Trillian non vedeva la figlia da...

“Oh mio Dio” comprese d’un tratto. “Non ricordo esattamente quand’è stata l’ultima volta che ho visto Random.”

Trillian cercò di tranquillizzarsi con un rituale.

«Hai davvero un bell’aspetto per essere una vecchia pollastrella» disse, rivolta allo specchio.

«Lo penzi davvero, kàara?» disse lo specchio, visibilmente offeso da ciò che gli si parava davanti ai sensori. «Se questo per te è bello, devi avere degli standard piuttosto bassi.»

Trillian s’inalberò. «Come osi? Se tu avessi visto quello che ho visto io, se avessi passato quello che ho passato io, be’, credo che saresti d’accordo che ho un aspetto dannatamente splendido.»

I sospiri dello specchio formarono piccole onde negli otto altoparlanti di gel montati sulla cornice.

«Basta lezioni di storia, kàara. Io non fattorizzo il passato, mi limito a commentare il presente. E in questo preciso momento, lascia che te lo dica, sembri proprio Eccentrica Gallumbits al suo terzo ciclo. E credimi, dolcezza, ai tempi del terzo ciclo di quella vecchia puttana le cose erano soprattutto liquido e gas. Se fossi in te, mi comprerei un bell’asciugamano e una vestaglia e...»

Trillian si scagliò sullo specchio e colpì con un cazzotto il tasto mute.

Da quando avevano cominciato a dare tratti caratteriali agli specchi? Riusciva a ricordare i tempi in cui solo gli androidi di prima classe e qualche rara e specialissima porta avevano la caratteristica CPV, Carattere da Persona Vera, sviluppato dalla Società Cibernetica Sirio.

Forse Trillian non aveva voglia di sentire ciò che lo specchio aveva da dire, ma doveva ammettere tra sé e sé che aveva ragione.

Era vero, era visibilmente vecchia. Decrepita, per essere esatti.

“Be’, è perché lo sono, zarkamente decrepita. Centocinque anni terrestri. Che cosa resta di me?”

Nel corso degli anni, il lavoro di reporter sub-Eta aveva intaccato Tricia McMillan pezzo dopo pezzo, e ben presto non sarebbe rimasto nient’altro che Trillian. Non si trattava di un’affermazione semplicemente metaforica. Trillian Astra era sempre stata pronta a sacrificare tutto per la rete: gli amici, la famiglia, diverse parti del corpo.

Aveva perso il piede su Orione Beta durante le ostilità minerarie. Il settanta per cento della sua epidermide era rimasto ustionato da uno schizzo di plasma sulla prima linea alle Gammacaverne di Carfrax. La mano e l’avambraccio destri erano rimasti mutilati in seguito a una devastante marcia durante le Guerre di Dordellis, e l’occhio destro le era stato cavato dall’asta appuntita di una bandiera durante un festival di pattinaggio sul ghiaccio per majorette wango-pango su Gagrakacka.

E così, quello che restava di Tricia McMillan era un cervello originale (con un rabbocco di neofluido), un occhio rigommato, un paio di guance (per la precisione una delle due era una natica), una manciata di ossa minori e due litri e mezzo di sangue umano. Gli altri tre litri tecnicamente non erano sangue, ma lacrime estratte da uno sciame di Argirolingui Inermi Demonietti Sensitivi, piccoli mammiferi originari del sistema Hastromil. Queste creature vengono sfruttate senza pietà perché non c’è parte di loro che non si possa utilizzare in qualche modo, dalle lingue d’argento snodate alle stesse onde psichiche, che possono essere imbrigliate da un’antenna per potenziare la ricezione dei segnali video, nel caso si abiti in fondo a una fossa. Gli stessi filosofi che citano il Pesce Babele come prova della non esistenza di Dio citano anche gli A.I.D.S. dalle sventurate iniziali, a riprova del fatto che invece esiste Satana, argomentazione che (persino una patata percorsa da una carica elettrica arriverebbe a comprenderlo) scredita la tesi di partenza. Ma cosa importa? Gli eruditi vanno matti per le controversie filosofiche.

Per ironia della sorte, Trillian si trovava a Hastromil per un servizio su un raduno di protesta in favore degli a.i.d.s., quando fu investita da una carovana di manifestanti argirolingui, costruita ancora più ironicamente con pellame di argirolingui, e l’ironia giunse al culmine quando la reporter ricevette una trasfusione da argirolingui mentre indossava una maglietta con su scritto proteggi gli argirolingui.

Giunse poi la notizia, per il tramite della stessa Trillian, che tutto questo sovraccarico localizzato d’ironie aveva causato la morte di undici empati che presenziavano al raduno. Dodici, se nella statistica si conteggiavano gli empati già notoriamente affetti da depressione.

Trillian carezzò la plastopelle della sua guancia. Era liscia e levigata, ma un po’ troppo tesa. Il tizio alla reception le aveva assicurato che il viso avrebbe un po’ ceduto, con l’uso, ma non era andata così. In certe giornate nere, Trillian trovava il suo volto parecchio somigliante a un teschio schiacciato contro un palloncino.

Un dirigente di rete una volta l’aveva descritta così: un’umanoide magra e abbronzata, dai capelli neri lunghi e ondulati, con un piccolo naso a patata e occhi di un indescrivibile color nocciola.

Erano finiti quei tempi.

Questa era una di quelle brutte giornate.

Random. Dopo tutti quegli anni.

Ogni volta che guardava la figlia dritto negli occhi, era come affacciarsi a guardare dentro pozze colme del suo senso di colpa.

Trillian batté i palmi delle mani sullo specchio.

«Ohi! Ehi!» disse lo specchio, bypassando lo spegnimento.

Trillian non gli badò.

Aveva bisogno di rimettersi in sesto. C’era stato un tempo in cui era la reporter più rispettata della galassia, e quella era una conquista. Avrebbe ricacciato il rimorso nella sua scatolina giù nella bocca dello stomaco, e portato a termine il lavoro.

Si aggiustò una ciocca dall’acconciatura di similcapelli, raddrizzò le spalle ed entrò nell’auditorium per intervistare la figlia concepita in una clinica satellite ipogravitazionale nei pressi della Stella di Barnard.

Trillian rabbrividì. Come se le nausee mattutine non fossero state già abbastanza, senza che ci si mettesse la bassa gravità.

Random aveva tutti i diritti di sentirsi priva di riferimenti: suo padre era una provetta, il suo pianeta di appartenenza, nella misura in cui ne aveva uno, era stato distrutto in svariate dimensioni, e sua madre, dopo averle dato una semplice occhiata, aveva deciso di gettarsi a capofitto in una carriera che l’avrebbe tenuta lontana da casa per lunghi periodi.

Non c’era da stupirsi che Random fosse un po’ gelida.

 

 

La presidentessa Random Dent sedeva a gambe incrociate su una poltrona-uovo galleggiante e salmodiava a bassa voce.

«Premolare disponiti dietro il canino dietro incisivo laterale dietro incisivo centrale. D-e-e-e-e-e-nte, prendi il tuo posto.»

La tenda non era stata ancora aperta, ma sentiva il baccano della folla dietro la stoffa pesante. Era di velluto, non olografica, una spesa affrontata controvoglia dall’università su insistenza di Random. Pur non essendo affatto antiprogressista, la presidentessa riteneva che nella galassia ci fosse ancora spazio per la tradizione.

Sorrise appena quando la madre fu condotta sulla piattaforma. Osservandole da una certa distanza si sarebbero anche potuti confondere i ruoli e pensare che Trillian fosse la figlia della Presidentessa, ma da vicino la verità era lampante. Lo smalto della chirurgia era steso su tutto il viso di Trillian.

La giornalista incespicò appena quando vide la figlia, ma si riprese subito.

«Avete un bell’aspetto, Signora Presidentessa» disse con quel tipico accento da giornalista, collocabile da qualche parte fra il Settore ZZ9 e Asgard.

«Altrettanto voi, madre» rispose Random.

Trillian si accomodò su una seconda poltrona-uovo e consultò gli appunti.

«Presidentessa Random Casualità Millemiglia Dent. Sempre con quest’abitudine di utilizzare troppi nomi?»

Random sorrise del sorriso sereno di chi vive da decenni senza incollerirsi. «E lei, Trillian Astra, sempre con quest’abitudine di usare quello sbagliato?»

Sorrise a denti stretti. Non sarebbe stata un’intervista semplice.

«Perché adesso, Random? Non ci siamo viste più di una dozzina di volte negli ultimi vent’anni. Perché adesso, nel momento in cui la mia carriera è in declino? Passo dai concorsi di bellezza di New Betel all’intervista più importante della mia vita.»

La figlia sorrise ancora, una piega delicata sul suo viso da persona cresciuta all’aria aperta, i capelli striati di grigio stopposi per il sole e l’acqua salmastra.

«Lo so che è passato un bel po’, madre. Troppo.» Carezzò un fagottino di pelo che aveva attorno al collo, dal quale sfuggì un debole gnaulìo. Trillian vide dei piccoli dentini e una coda e si sentì morire.

«Avevo sentito parlare di questa cosa. Il vostro compagno fedele. È una sorta di piccolo gerbillo, vero? Grazioso.»

«È più che un grazioso gerbillo, madre. Fertle è il mio compagno. Un flibuzzo. Adulto. Una sorgente di conoscenza, interamente trasmessa per via telepatica.» E sganciò la bomba. «Ci siamo sposati ieri.»

La pelle di Trillian si fece più tesa di quanto non lo fosse un istante prima. «Vi siete sposati?»

«Si tratta di un vincolo mentale, ovviamente. Anche se a Fertle piace quando gli solletico il pancino.»

 “Mantieni il controllo” si disse Trillian. “Sei una professionista.”

«Lasciatemi comprendere. Voi comunicate telepaticamente con... Fertle?»

«Certo. È la comunicazione che mantiene unite le famiglie. Non l’avevi mai sentito dire?»

A questo punto, Trillian smise di essere una giornalista e cominciò a fare la madre.

«Basta con le frecciatine velenose, signorina. È della tua vita che stiamo parlando. Sei Random Dent, la Presidentessa della Galassia. Sei tu che hai riunito le tribù del pianeta Terra. Hai sovrinteso alla prima cerimonia ufficiale di primo contatto.» Trillian era in piedi, adesso. «Sei stata alla testa della conquista commerciale nello spazio. Hai negoziato la parità dei diritti fra alieni.»

«E adesso voglio qualcosa per me.»

Trillian strangolò un gerbillo immaginario, una ventina di centimetri davanti a quello reale. «Ma non un gerbillo. Non uno zarkissimo gerbillo. Come farà un gerbillo a darmi dei nipotini?»

«Non vogliamo avere figli» fece Random incurante. «Vogliamo viaggiare.»

«Ma di che stiamo parlando? Questo coso è un roditore.»

«Questo individuo» specificò Random «è un flibuzzo, come sai bene. E credevo che proprio tu, fra tutti, avresti potuto comprendere la nostra relazione. La formidabile Trillian Astra. Paladina di tutti, meno che della propria figlia.»

Trillian credette di cogliere uno spiraglio di luce nelle tenebre. «Aspetta. Come come? E per me che fai tutto questo? Intendi distruggere la tua vita per vendicarti di me? È un cocktail di vendetta maledettamente contorto, Random.»

La figlia solleticò il marito facendogli sfuggire un risolino. «Non essere ridicola, madre. Ti volevo qui per presentare tuo genero alla galassia. Sarà il tuo momento di trionfo come giornalista, e servirà a riunirci come una famiglia.»

Solo allora Trillian comprese tutto del geniale coup de gràce di Random. Se avesse annunciato quell’unione in Spectrovision full 3D, sarebbe diventata lo zimbello di tutti. Se si fosse rifiutata, avrebbe perduto per sempre sua figlia, che avrebbe sfruttato la situazione per attirarsi sufficienti simpatie e conquistarsi un ulteriore mandato. Per male che fosse andata, l’intera popolazione dei flibuzzi avrebbe votato per lei, ed erano zilioni.

La carcassa di Trillian sussultò spasmodicamente. Sposati!

«Scordatelo, Random, non mi userai per raccontare la tavoletta della tua relazione. Non appena metto piede fuori di qui, rintraccio tuo padre e te la vedrai con lui.»

Random sobbalzò dalle risate, terrorizzando il marito. «Arthur! Ma hai idea di quanto se la filerebbe lontano pur di evitare il confronto?» S’interruppe e chinò il capo. «Fertle dice, e sono d’accordo con lui, che sei tu a doverlo annunciare, madre. La galassia aspetta la grande notizia.»

«Assolutamente no. Mi rifiuto di farmi manipolare.»

«Non hai problemi a farti comandare dalle reti, dal bravo robot che sei. Ti sento ronzare da qui. Sento l’odore dei tuoi circuiti. Esiste un pezzo di te che sia originale? Sei in grado di mettermi in contatto con la mia madre umana? O chissà, magari sai dove hanno sepolto la sua spina dorsale.»

Trillian fu sollevata nel vedere che quella facciata di cortesia era stata spazzata via.

«Fottiti, Random.»

La Presidentessa annuì. «Sì, Fertle. È fatta proprio così. Adesso capisci perché sono inaccessibile, con tutte le difese che ho eretto intorno al mio cervello?»

Trillian quasi urlava. «Stai parlando con un fottuto yo-yo!»

Fertle parve risentire degli strepiti.

 

nota della guida. Benché privi di orecchie, i flibuzzi sono estremamente sensibili alle vibrazioni e possono realmente esplodere in circostanze estreme. Thor, il dio di Asgard e talvolta anche del rock, polverizzò il record di detonazione spontanea di flibuzzi in occasione del lancio del suo nuovo singolo, Ti spacco a martellate, da un cocchio in orbita intorno a Sconchiglioso Delta. Il record precedente era detenuto dalla rock band intergalattica La Zona del Disastro, che aveva gettato una bomba-altoparlante nel cratere di un vulcano dove i flibuzzi stavano tenendo un festival di elettricità statica.

 

Il pelo di Fertle si arruffò, e la creatura aprì una boccuccia che adesso pareva provvista di becco.

«Batteria» disse Fertle, con voce di filo elettrico e artigli.

«Che?» disse Trillian. «Ho sentito parlare un flibuzzo? Questa sì che sarebbe una notizia.»

«Batteria» ripeté Fertle, ora con voce incalzante.

Random e Trillian erano dritte in piedi, le bocche spalancate, i lineamenti familiari d’un tratto ben evidenti, malgrado il gran numero di interventi e di protesi.

«Cosa succede?» fece la Presidentessa, con una voce improvvisamente più alta. «Madre? Che succede? Dove sono i miei giornalisti?»

«Non farti prendere dal panico» disse Trillian, cercando di reprimere il tremolio nella voce. «Sta succedendo qualcosa.»

«Sta succedendo qualcosa?» strillò Random. «Tutto qui? Con tutti i tuoi anni in prima linea te ne esci con un semplice “sta succedendo qualcosa”! Questo è un tentativo di rapimento, ecco cos’è. Siamo state teletrasportate da qualche parte.»

Trillian strinse le palpebre e guardò le figure umanoidi che parevano diventare sempre più familiari, come se delle scaglie di oblio le cadessero dagli occhi.

«Rapite. Non credo. Non da questi due. Sono innocui... Praticamente innocui.»

Random assunse la sua posizione da potere presidenziale preferita: piedi ben piantati, braccia incrociate sul petto.

«Voi due uomini. Cosa avete fatto? Pretendo di sapere dove ci troviamo.»

Il più basso si accorse delle nuove arrivate; cosa piuttosto facile, dal momento che una di loro gli stava gridando contro.

«Credo che la domanda debba essere quando siamo, e possibilmente chi ci ha portato qui, seguita da non c’è un carrello degli alcolici?»

Random gli rivolse un’occhiataccia. «Ma certo che c’è un carrello degli alcolici. Fa’ l’insolente quanto ti pare, giovanotto. Lo so che sotto sotto sei spaventato quanto noi.»

L’uomo sorrise. «Sono un betelgeusiano, Random. Noi non facciamo mai niente sotto sotto.»

Random perse l’occasione di rispondere per le rime perché l’improvvisa identificazione del secondo uomo la colpì come una torta Sorpres-o-plasma dritta in viso.

«Padre? Papà? Papi?»

«Scegline una sola» suggerì il betelgeusiano. «Renderà più semplice le conversazioni.»

Trillian balzò da un capo all’altro della stanza, muovendosi più rapida di quanto non facesse da anni.

«Adesso vediamo un po’ cosa dice tuo padre di questo matrimonio.»

Random parve improvvisamente molto più giovane. «Papino!» strillò. «Papino! La mia stupida madre odia mio marito.»

La sagoma del padre crollò il capo e desiderò ardentemente una tazza di tè.